Di bene in miglio... per la transizione proteica

Il punto di vista dei medici

di Roberto Comi (Cardiologo USL Centro Toscana)

Prima dell'avvento del mais, il miglio era il cereale più coltivato nel Nord Italia. È un cereale "da riscoprire"; non è particolarmente ricco di proteine, ma, aldilà del gioco di parole, può essere un simbolo di quel fenomeno chiamato transizione proteica, vale a dire lo spostamento nell'ambito del consumo di proteine, da quelle di origine animale a quelle di origine vegetale. Comunemente, questa che è ormai definibile una necessità, viene giustificata sulla base di tre ordini di considerazioni: una etica, una salutistica, una ambientale. È evidente che la motivazione etica non è giudicabile. Se uno ha questa convinzione, perfettamente comprensibile, non può essere criticato: è una scelta morale, punto e basta. Non si possono addurre motivazioni di carattere scientifico a supporto o meno.

Assai diverso invece è il discorso dal punto di vista della salute dell'uomo e di quella dell’ambiente. Qui le motivazioni ci sono, eccome... Sotto il profilo ambientale, il contributo dell'agronomo contribuisce a fare chiarezza sulla questione; sotto il profilo medico, la dietetica ha avuto un'evoluzione con diverse tappe nella storia della medicina. Dapprima cardine di quello che era l'agire medico in epoca pre-farmacologica, è poi passata in un certo qual modo in secondo piano, rispetto alle terapie propriamente dette, per poi recuperare terreno con l'esplosione delle malattie degenerative. L'attenzione dei medici è stata per lungo tempo incentrata sui grassi saturi, in particolar modo ovviamente sul colesterolo, tralasciando altri aspetti la cui importanza è stata capita solo in tempi più recenti, ad esempio che un vero nemico del genere umano è, in realtà, lo zucchero raffinato.

In ogni caso, fino a tempi recenti, l’attenzione della dieta da parte dei medici è stata soprattutto sulle calorie, tanto che nell'accezione comune il termine “mettersi a dieta” significa fare una dieta ipocalorica per dimagrire. Successivamente il tiro è stato dapprima posto sulla riduzione del contenuto di grassi saturi e in un secondo tempo sulla riduzione del consumo di carboidrati semplici. Per quanto riguarda le proteine, i primi a rendersi conto dell'importanza di intervenire sotto questo aspetto sono stati i nefrologi (ecco le ragioni del contributo a seguire del collega). Per un certo tempo, che purtroppo dura ancora oggi (spesso ad opera di personaggi al limite, ed oltre, della legalità), le proteine di origine animale sono state viste come una comoda “via di fuga” per fornire cibi “gustosi” che aiutassero a tollerare la riduzione delle calorie di una dieta. Lo sviluppo delle conoscenze e l’attenzione sempre maggiore alla qualità, oltre che alla quantità, di quello che mangiamo, ha portato infine all’attenzione della comunità scientifica che le calorie non sono tutte eguali e che le proteine di origine animale, il cui consumo è così diffuso nel mondo occidentale, se presenti nella dieta in quantità rilevante, sono dannose, rispetto a quelle di origine vegetale, per la salute dell’uomo, favorendo i processi aterogeni alla base delle malattie cardiache e cerebrovascolari e il cancro. La mole di dati al riguardo è via via cresciuta: al momento, possiamo dire, che non si tratta più di ipotesi ma di dati accertati. Ovviamente non è questa la sede per approfondire il discorso (i meccanismi molecolari alla base sono complessi e in via di chiarimento), ma il focus principale è che la transizione proteica (dalle carni rosse ai legumi, ai cerali, compreso appunto il miglio del titolo, alla frutta secca, etc…), diviene, aldilà, ma direi in accordo, con gli aspetti etici ed ambientali, una necessità primaria per la qualità, oltre che per la quantità, della vita delle generazioni future.

 

di Franco Bergesio (Nefrologo USL Centro Toscana)

Sotto il termine di “transizione proteica”, del tutto inconsueto e apparentemente “misterioso” per noi medici, non si cela in realtà niente di nuovo ma si vuole semplicemente indicare un il passaggio da un uso prevalente di proteine animali ad un altro dove a prevalere sono quelle vegetali. In realtà è una sorta di “ritorno al passato”, alle abitudini dei nostri nonni che vivevano nelle campagne, dove i legumi hanno egregiamente rimpiazzato la carne almeno fino al momento del boom economico del dopoguerra. Questo tipo di alimentazione, che prevede un uso prevalente di proteine e grassi vegetali rispetto a quelli animali, è una caratteristica della ormai celebrata “dieta mediterranea” a cui è stata riconosciuta una significativa riduzione della morbilità e mortalità delle popolazioni che ne fanno uso.

L’uso delle proteine vegetali, a scapito di quelle animali, ha avuto anche ed ha tuttora un impiego terapeutico nella cura dell’insufficienza renale grazie alle intuizioni negli anni ‘60 della scuola nefrologica pisana e napoletana. Questo tipo di dieta si è dimostrato efficace nel controllo di gran parte dei sintomi uremici come nausea e vomito. Questi ultimi sono la diretta conseguenza dell’aumento dell’urea, principale metabolita delle proteine animali. Ma ad essere corretta non è solo l’azotemia (di cui l’urea è la principale componente) ma anche l’acidosi che dipende dagli aminoacidi solforati di cui sono ricche le proteine animali. Le diete attualmente in uso nell’insufficienza renale privilegiano tutte le proteine vegetali e sono generalmente “ipo-proteiche” cioè hanno un contenuto ridotto di proteine (0,6-0,8 g/Kg/die). Il rallentamento della progressione dell’insufficienza renale è un altro importante effetto collaterale di questo tipo di dieta.